Il primo a riconoscere quel “Titta” Colimodio, citato in una lettera di Artemisia Gentileschi, nel pittore calabrese Giovanni Battista Colimodio fu Alfonso Frangipane nel 1932. Nella lettera scritta a Napoli il 24 luglio 1649, Artemisia Gentileschi chiede al suo mecenate Antonio Ruffo principe della Scaletta notizie su «Titta Colimodio» – Titta è il diminutivo di Giovanni Battista – dal momento che lo stesso non risponde a sue precedenti lettere; per tale ragione prega il Ruffo di fare in modo che Colimodio le risponda al più presto perché deve comunicargli qualcosa d’importante.
La Vicenda
«Desiderarei di sapere che se è fatto di Titta Colimodio, ch'è tanto tempo che non ho auto risposta delle lettere che giò mandato. Me farà gratia Vostra Signoria Illustrissima farli intendere che me escriva che ho da discorrere per lettera cosa di molta importanza, e la prego che lo faci escrivere al subito, e con questo fo fine baciandole le mani con ongni suo contento, oggi a 24 de luglio del 1649».
La rilettura della missiva consente di immaginare per Giovanni Battista Colimodio un probabile e appagante trascorso nell’entourage napoletano della Gentileschi, come d’altronde testimonia l’unico riferimento archivistico napoletano finora noto che lo pone in relazione con il pittore Massimo Stanzione. Alla fine del 1639 risale una notula in cui Giovanni de Zevallos effettua un pagamento in favore di Massimo Stanzione a saldo di un dipinto di sua mano, dunque autografo, somma che quest’ultima versa in favore di Colimodio. La rilettura della missiva consente di immaginare per Giovanni Battista Colimodio un probabile e appagante trascorso nell’entourage napoletano della Gentileschi, come d’altronde testimonia l’unico riferimento archivistico che lo pone in relazione con il pittore Massimo Stanzione.
Alla fine del 1639 risale una notula in cui Giovanni de Zevallos effettua un pagamento in favore di
Massimo Stanzione a saldo di un dipinto di sua mano, dunque autografo, somma che quest’ultima versa in favore di Colimodio. Il documento
confermerebbe che a tale data Giovanni Battista sia già introdotto nell’ambiente artistico partenopeo vicino alla Gentileschi, sebbene
non si conosca a che livello e in che modo.
Il probabile soggiorno napoletano per Giovanni Battista Colimodio, certo sottinteso nella citata lettera di Artemisia, dovette avvenire
negli anni tra il 1634 e il 1649. In quegli anni la celebre pittrice era ben introdotta nella capitale del Viceregno e l’attività della
sua bottega prevedeva la collaborazione di importanti artisti come appunto Massimo Stanzione, ma anche di altri, come Domenico Gargiulo,
Francesco Guarino, Bernardo Cavallino, Andrea Vaccaro e ancora di Onofrio Palumbo la cui presenza è documentata almeno nell’ultima fase
dell’attività napoletana di Artemisia. Assieme a questi pittori è possibile che Giovanni Battista Colimodio muovesse i suoi passi nella
cerchia della Gentileschi, accogliendo i loro paradigmi stilistici per poi reinterpretarli nelle sue opere in Calabria. Tale supposizione,
al momento, si fonda per i riflessi dell’arte di Artemisia riconoscibili nei dipinti attribuiti a Giovanni Battista, per il citato
documento del 1639 e ancora per la lettera del 1649.
La vicenda tra Titta Colimodio e Artemisia Gentileschi, come proposta tra le pagine della monografia sul pittore di Alberto Pincitore,
basata su riferimenti archivistici indiretti e su elementi stilistici evidenti, come scrisse Giorgio Leone «parrebbe innegabile e
veritiera». La rilettura della lettera, infatti, pone l’attenzione su alcuni elementi significativi, in precedenza trascurati,
come ad esempio nel fatto che la pittrice fosse a conoscenza del luogo in cui il pittore calabrese si trovava e, ancora, nel ruolo
svolto dal Ruffo tra i due. Si può dedurre, infatti, che Artemisia chieda notizie al suo mecenate perché probabilmente è lui l’ultimo
dei suoi conoscenti ad averlo visto e da qui l’ulteriore ipotesi che Giovanni Battista Colimodio abbia potuto accompagnare nello
sventurato trasporto da Napoli a Messina il dipinto Galatea che la “pittora” dipinse per Antonio Ruffo e, successivamente, abbia
fatto ritorno nella sua Orsomarso dove nello stesso 1649 realizza la pala d’altare affrescata raffigurante San Michele Arcangelo
e santi, unica opera, al momento, in cui compare la sua firma. Tali conoscenze testimonierebbero, ed è un caso alquanto raro,
che il pittore dopo il periodo di perfezionamento a Napoli, scelga per qualche oscura ragione, di far ritorno nella sua terra
come peraltro confermerebbe il suo lascito pittorico in Calabria a differenza di Napoli, dove attualmente non è ancora emersa
alcuna sua traccia artistica. La lettera, l’unica in cui si fa riferimento a Titta Colimodio, gli concede quell’attimo di notorietà,
almeno nell’ambito della storiografia artistica calabrese, in quanto la critica relativa alla Gentileschi non ha ancora smesso di
interrogarsi del tutto sulla sua identità, benché la sua arte sembri trasmettere quell’aria respirata a Napoli, accanto a una artista
straordinaria quale è Artemisia Gentileschi.
A cura di Alberto Pincitore e Cecilia Perri.